21. I CINQUE AUTORITRATTI
Non sempre è positivo ottenere risposte nette e precise alle domande che ci poniamo. A volte è meglio rimanere nel dubbio, nell’incertezza, nel limbo delle possibilità: in tal modo, ci riserviamo ancora il diritto di ipotizzare soluzioni positive e di dondolarci tra possibilità allettanti. Ma non tutti la pensano così. Ci sono persone che vivono tassativamente con principi di vita della serie qui e adesso, ora o mai più….
La Gatta è l’esempio vivente della filosofia del carpe diem. Sì, perché lei afferra e vive con intensità il giorno, il momento, la vita: non conosce mezze misure, non è diplomatica e paziente, non tollera le attese (neppure quelle delle segreterie telefoniche), non ama l’incertezza, le incognite, i “ni” (diffusissimo e moderno ibrido tra “no” e “si”). Certo, ama sognare e fantasticare, ma quando si tratta di gestire situazioni reali e quotidiane, lei vuol camminare ben aderente al suolo, con il suo passo da felino predatore. Un passo sempre silenzioso, leggero, attento, prima lento, poi veloce. Lei è fatta così: un animale selvatico che agisce d’istinto.
Alle dieci del mattino, la lunga chiacchierata con il professor Astrolabio termina all’improvviso, a causa della fuga inopportuna di Orione dalla sua teca, dimenticata semiaperta dal padrone di casa. Il povero pitone reale è davvero stufo di dover rimanere dentro quella bara di vetro, mentre tutti possono liberamente muoversi per casa. Dov’è finito il principio di uguaglianza in natura? “Sempre che sia esistito” pensa il pitone mentre girella lentamente per la sala, soddisfatto di quella opportunità di perlustrazione. Ma la vista del pitone vagante fa desistere la Gatta dall’ottenere un feedback utile e costruttivo dal professore: per lei il colloquio ora può anche terminare. Meglio avere dubbi su fantasmi che la certezza di un contatto ravvicinato con un serpente.
Così, dopo aver deciso che la giornata dovrà essere molto produttiva, esce velocemente dal palazzo. Beve un secondo caffè al bar del quartiere, dopo quello bevuto con il professore: andare in quel bar le scalda l’anima, perché i ragazzi che ci lavorano sono sempre allegri e sorridenti. Mentre si muovono veloci tra tazzine, bicchieri e croissants, raccontano barzellette e scherzano con i vecchi clienti. Il clima è disteso e sereno: è quello che le serve adesso per darle un po’ di carica.
Lasciato il bar, guarda per qualche secondo la sua piccola auto parcheggiata sotto casa. Perché muoverla da lì? C’è uno splendido sole che emana raggi seducenti, caldi, avvolgenti. E allora è il momento giusto per camminare un po’, per immergersi tra la gente, tra quelle anime indaffarate e veloci.
La Gatta esce quindi dal quartiere e inizia a camminare, zigzagando tra le persone, come una zanzara a caccia di prede. Per la strada, sente odori di sigarette, di benzina, di polvere, di sudore. Ascolta rumori di motori, di voci, di clacsons, di tacchi sull’asfalto. Vede bambini saltellanti, donne con i sacchi della spesa e donne in tailleur grigio e ventiquattrore griffata, uomini con tute sporche di lavoro e uomini impiccati in cravattoni a righe, rigidi come marionette. E pensa quanto sia meraviglioso e vario il mondo.
Dopo che la sua attenzione è catturata dal tamponamento tra due biciclette (ma come faranno a tamponarsi due biciclette?) e dalla litigata tra un camionista modello Hulk e una centaura in tuta di pelle nera, ecco fatto…. arrivata. Già, ma dove? Come mai è lì?
Con la mente immersa in tutti quei rumori, invece di dirigersi verso il suo studio, ha camminato dritta verso il palazzo Malasorte. E ora è nella piazza davanti al gigantesco portone chiodato, con la civetta che lo sovrasta dall’alto dello stemma di famiglia. Che fare? Ovvio: una bella suonata al campanello.
Del resto, visto che è lì, potrà iniziare a riflettere sul design della stanza del pargoletto, come da incarico conferito dal Conte. E finalmente potrà lavorare senza la presenza ingombrante dello stilista Leo: bravo ragazzo, ma invadente come l’erba gramigna! Sì, la Gatta vuole un mondo di bene a Leo, ma in certi momenti è meglio tenerlo a debita distanza.
La Gatta suona quindi il campanello: il solito omone si palesa, con un’aria infastidita e poco rassicurante. La guarda: sembra in procinto di farle una radiografia. In dieci secondi esatti la squadra da testa a piedi, poi la fissa ben bene negli occhi. Infine, parla: “Desidera?”
“Buondì, buongiorno, salve….” e mentre parla, la Gatta pensa che almeno uno di quei saluti andrà pure bene a quell’essere inquietante.
“Desidera?” ripete con voce spazientita quella montagna umana, quasi sbuffando un po’.
“Ecco…. desidero…. cioè….” la Gatta farfuglia qualcosa, ma poi stizzita, inizia a tirar fuori i suoi begli artigli “Sono stata incaricata dal Conte per un lavoro di design interno al palazzo. E ora sono qui per procedere! Quindi desidero entrare!”
Mentre l’uomo-pinguino la guarda un po’ stupito, lei è tutta soddisfatta: pensa che sia una gran cosa avere un bel caratterino e usarlo!
L’essere si fa da parte, la fa entrare e, stranamente, non le fa neppure strada: chiuso il portone cigolante, si gira sui tacchi e sparisce tra le piante della corte interna.
“L’orco è tornato nel bosco ed io entro nella casa del diavoletto” pensa la Gatta mentre si dirige svelta verso la scalinata di marmo.
Sale i gradini e intanto osserva con rispetto quelle mura antiche, coperte in gran parte da arazzi di seta e velluto. Arrivata sul pianerottolo, una cameriera le compare davanti, in divisa nera, grembiule e crestina bianca sulla testa (praticamente la versione umana del pappagallo Galileo).
“Attenda qui che l’annuncio al Conte. Si accomodi pure nel salotto degli avi” dice la cameriera, aprendo una porta e facendo strada in un salone stracolmo di quadri e statue di marmo. Non è il salone dove l’hanno fatta attendere la prima volta insieme a Leo. E’ uno dei tanti altri luoghi affascinanti di quel palazzo nobile e antico.
“Ma quante procedure arcaiche, obsolete e…. pure noiose!” pensa la Gatta che, ricordiamocelo sempre, odia le attese.
Trascorrono cinque minuti e nessuno si fa vivo. Si sente in lontananza la voce del piccolo Arcibaldo che protesta contro qualcuno (probabilmente la “tata” tedesca). Poi il silenzio per altri cinque minuti.
“Uffa!” pensa la Gatta, spazientita “questa storia di fare sempre anticamera non la sopporto proprio! Darò un’occhiata a questi tipi appesi alle pareti, tanto per passare il tempo….”
Si alza quindi dalla poltrona stile settecento veneziano e inizia a passeggiare per quel salone, cercando di trovare un’identità per ogni personaggio rappresentato in quei ritratti antichi.
“Questo deve essere un nonno o un bisnonno militare: ha una miriade di decorazioni e medaglie e ha pure dei baffi incredibili! Secondo me, era anche un po’ antipatico: si vede dagli occhi. Ha lo sguardo di chi vuol sempre comandare. Forse era un generale!” pensa, sicura della sua analisi pittorica.
“Questa damina stile Ottocento è carina! Sembra una bamboletta di porcellana da collezione. Vestito largo e gonfio tipo Cenerentola al ballo, guanti fino al gomito, boccoletti come Arcibaldo…. Secondo me, è un’antenata morta giovane, che so…. di polmonite fulminante oppure di peste o di colera o di malaria! Ma no, è morta di crepacuore perché il suo amante ha sposato un’altra….” e tutta soddisfatta della fine un po’ più romantica decisa per la damina, la Gatta prosegue il suo giro ispettivo.
Un quadro dopo l’altro, una statua dopo l’altra, trascorrono altri minuti. Il Conte non si vede ancora e neppure una mezza cameriera.
“Ora qui si rasenta la maleducazione, eh? Devo aspettare tutta la mattina inutilmente?” sbuffa alterata mentre decide che è il momento di andarsene. Attraversando veloce il salone, inciampa in uno dei tanti tappeti orientali. Non cade, ma finisce con un salto contro la parete più vicina.
“Accidenti ai tappeti e a chi li ha inventati!” dice a voce alta, mentre si scosta dal muro e dal quadro contro cui è capitata.
“Ohi! Ho spostato l’antenato! Ora è tutto storto!” la Gatta afferra la grande cornice dorata per riposizionare il ritratto perpendicolarmente al pavimento e…. lo guarda. Guarda quel viso: la sua vista si appanna. Si allontana un metro. Guarda tutta la figura: un tuffo al cuore. Il sangue sembra viaggiare come un missile nelle sue vene, sembra esplodere in mille fuochi di artificio nelle sue arterie. Si allontana di un altro metro. Quella donna è lei, non ci sono dubbi! Il gelo. Sì, la Gatta sente tanto freddo ora.
“Salve! Vedo che ha fatto la conoscenza di Ginevra, la bellissima donna amata da un mio avo!” il Conte Malasorte entra nel salone, mandando in frantumi quell’atmosfera congelata.
La Gatta riesce ad emettere solo un “Buongiorno”, mentre rimane ferma sul tappeto di lana e seta e continua a fissare il quadro.
“Carissima! Noto che questo dipinto ha proprio catturato il suo interesse! Allora le spiego: è uno degli autoritratti che Ginevra, nobildonna e affascinante pittrice, realizzò per alcuni suoi spasimanti. La leggenda narra che Ginevra fosse donna di indubbie qualità morali: essendo sposata, non si concesse mai ad alcuno di loro, ma ricompensò il loro amore con un dipinto che la raffigurava. In ogni autoritratto, lei appare con leggere differenze. Ad esempio l’abito. Qui è azzurro come il mare: perché il mio avo era comandante della marina militare, pluridecorato, eroe di guerra….” il Conte è orgoglioso di poter fornire notizie così interessanti su un componente del suo albero genealogico.
“E quanti sono questi autoritratti?” chiede la Gatta, meravigliata di non aver mai saputo nulla di questa storia da romanzo rosa.
“Credo che siano cinque. Sì, cinque autoritratti in tutto. Ma gli altri quattro non so dove siano! Orbene carissima” e il nobile ora torna a fatti meno poetici e molto più prosaici “credo che lei sia qui per un ulteriore sopralluogo nella stanza di Arcibaldo. Quindi, proceda pure liberamente. Io devo lasciarla perché parto or ora per la Francia, dove ho un castello di famiglia con problemucci di staticità. La saluto e buon proseguimento!” e il Conte si inchina, le sfiora con i baffetti la mano ed esce velocemente dal salone.
Mentre la Gatta rimane in una fase standby davanti a quel quadro, una vocetta stridula le perfora i timpani: “Nonna Ginevla! Lacconta le favole di Dlacula!”
La Gatta si gira come una trottola. Dietro di lei, c’è il piccolo Arcibaldo con la solita divisa di velluto nero, i boccoli dorati sudati dopo una corsa, la faccetta impertinente.
“Nonna Ginevra? Ti racconta le favole?” esclama la Gatta allibita. Ma cosa sta dicendo quel tipetto impertinente?
“Sì, sì, sì…. la nonna …. le favole….” e Arcibaldo la guarda da sotto in su, sicuro di sé, mentre indica il quadro e ride come un matto.